I Miei Amici Around The World / Seconda Parte
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Federica Gotta @ GIAPPONE
(agosto 2006 + agosto 2007 + agosto 2009 + capodanno 2014)
Caro Gianluchino,
normalmente quando si desidera qualcosa ardentemente e per lungo
tempo si è soliti credere che la parte più emozionante di un sogno
consista proprio nella trepidante attesa, di leopardiana memoria, di
poterlo realizzare. Il Giappone per me era questo: dieci anni di animosi
desideri ed un solo posto nella mente. Un luogo lontanissimo,
misterioso, affascinante, diverso, non perfettamente comprensibile, lo
scenario di tante storie che avevano segnato la mia crescita, costruito
nella mia mente raschiando le poche informazioni allora reperibili
(quando in Italia persino un ristorante Giapponese era ancora una “mosca
bianca”!!). Vedere il Giappone era il sogno della mia vita, l’ho sempre
saputo. Quello che non potevo ancora sapere era di quanto la realtà
potesse superare ogni mia giovanile aspettativa.
Quello che all’epoca non potevo ancora capire era l’emozione, no la commozione, di trovarmi a Roppongi Hills all’imbrunire, quando Tokyo
inizia a brillare delle sue luci artificiali e ti ritrovi con il cielo
oscuro e pieno di stelle sotto i piedi e non sulla testa, mentre
all’orizzonte, sullo sfondo, la sagoma del Fuji-sama viene progressivamente inghiottita dal buio.
Quello che all’epoca ancora non sapevo è lo sdegno che si prova per la razza umana quando si visita il museo della pace a Hiroshima, l’apnea che raggiungi davanti a quelle lancette eternamente ferme alle 9:15 ed il turbamento davanti al Genbaku Dome, mentre un enorme sole arancione si riflette nel Kyobashi-gawa ed un giovane intona qualche nota spezzata con una chitarra. Quello che ancora non potevo sapere era quanto fosse coinvolgente trovarsi in un matsuri, consultare speranzosa un omikuji mentre mangi camminando dei takoyaki, compilare ed appendere una ema, scegliere un omamori
a cui affidare la tua sorte una volta in patria, raccogliere ammirata i
sigilli in tutti i santuari visitati, creando il mio taccuino di
viaggio, forse il “souvenir” più bello.
Quello che non potevo sapere è quanto avrei amato Kyoto, indimenticabile quando i raggi del sole si riflettono sulle lamine dorate del Kinkaku-ji, quando ti senti scricchiolare il pavimento del castello Nijo sotto i piedi, quando ti perdi nei colori del giardino imperiale del Sento o della foresta di bambù di Arashiyama. Quello che non ti aspetti è il senso di vertigine nello scrutare i volti delle centinaia di statue di Kanon schierate in fila nel Sanjusangendo e nell’attraversare i Torii del Fushimi Inari, aspettando che una qualche creatura mitologica e trasformista ti venga realmente incontro.
Quello che non potevo nemmeno lontanamente immaginare è la vista della città dalla terrazza del Kiyomizu-dera o di trovarmi tra le luci soffuse di Gion mentre una geisha accarezzava un coniglio e pensare che il tempo si fosse fermato nelle strade di Higashiyama.
Quello che non potevo sapere è che la sera la baia di Tokyo è più romantica della Senna, che nel cimitero di Yanaka
è possibile fare un giro in altalena, che vedere omotesando di sera dal
suo famoso cavalcavia pedonale o attraversare in diagonale l’incrocio
di Shibuya avrebbero impresso delle indelebili sensazioni nella mia memoria, capaci di emozionare ad ogni ricordo.
Tokyo non è una città, sono
decine di centri intersecati, è fluida e trasformista. La città è un
grande luna park e la sensazione è quella di essere sempre sulle
montagne russe: luci, colori, musica, fiumane di persone che si
incrociano freneticamente.
Eppure basta entrare in un parco o in
un santuario per essere catapultati in un’altra dimensione spazio
temporale, il rumore della metropoli non esiste e si ritorna ad Edo, come in un segreto incantesimo. Tokyo
è una megalopoli, guardandola dal basso verso l’alto può spaventare, ma
è solo perché si sceglie il punto di osservazione sbagliato… bisogna
percorrerla e viverla per rendersi conto di quanto sia a dimensione
“d’uomo” più di tanti altri posti nel mondo.
I tokyoiti passano talmente poco tempo in casa, che tutta la città è
una grande ed ospitale dimora, piena di servizi accessibili a tutte le
tasche.
Quello che mi ha stupito maggiormente
però è il profondo senso di educazione e ospitalità che ancora esiste in
questa piccola striscia di mondo. In una città di 12 milioni di
abitanti e dove tutti corrono, c’è ancora sempre tempo per un sorriso e
per un “buongiorno e benvenuti”, qualcuno può decidere di perdere il
suo treno per accompagnare te sulla banchina giusta o di offrirti un
pranzo vicino il mercato del pesce di Tsukiji o magari del the e biscottini in un santuario.
Il costume giapponese riesce a coinvolgerti senza che nemmeno te ne accorga.
È singolare la naturalezza con cui ti ritrovi ad inchinarti quando ti
porgono il resto, a posizionarti ordinatamente ed automaticamente in
fila, a usare il pasmo e togliere la suoneria in metro, a passare la notte al Karaoke aspettando il primo treno del mattino, a fare colazione al konbini la mattina, a consumare un bento durante i tragitti in shinkansen, a concludere ogni serata degna di essere ricordata con una purikura e una sfida all’ufo catcher, a non fumare in strada, a comprare gashapon ad Akihabara
ed una serie di bellissimi oggetti a Loft, a mangiare un menù a prezzo
fisso o ad aspettare gli sconti in chiusura nei reparti alimentari dei
piani semi-interrati di enormi centri commerciali, a provarti mille
strani trucchi e vestiti con una maniacale cura dei dettagli, a mangiare
una crepe su Takeshita dori, una tempura ad Asakusa.
Quello che non sapevo è che con quattro viaggi all’attivo questa
nazione sarebbe stata ancora capace di emozionarmi come il primo giorno
che l’ho vista.
(Federica Gotta)
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Mario Mastrodonato @ Varanasi, INDIA
(agosto 2013)
Caro Gianluchino,
quella che ti vorrei raccontare oggi è la storia di un pugno allo stomaco.
Il mio pugno allo stomaco ha un nome, un luogo, tanti visi e tanti, tanti odori. Il mio pugno allo stomaco si chiama Varanasi, la città sacra che brulica (perché altro termine non riesco a usare) sulle rive del Gange.
Varanasi è stato il mio impatto con l’India. Proveniente dal Nepal (non da Stoccolma, intendiamoci), la prima città dell’India che ho incontrato, o meglio, che mi ha travolto, è stata lei, lasciandomi esterrefatto, e spiegandomi, in un attimo solo, il perché avessi deciso di andare in India, e cosa ricercassi da questa esperienza. La città sacra dal Gange trae la sua linfa vitale, ed al fiume Gange restituisce, nella speranza (o meglio, certezza) di purificazione, i suoi figli e tutto quanto si possa immaginare. Non è facile descrivere Varanasi.
Questa città è colori, preghiere sussurrate a qualsiasi ora del giorno, fuochi accessi per tutte le ventiquattro ore, cadaveri che bruciano sui Ghats – le scalinate che portano al fiume, dove tutto si svolge – , animali, bovini, che occupano le vie e le case della gente come se fossero loro i veri padroni, trattati come tali. Alzi lo sguardo e vedi scimmie intente a volare da un tetto all’altro, ragazzini sui tetti che inseguono aquiloni, abbassi lo sguardo e vedi sterco ovunque (si, caro Gianluchino, ti insegno questo segreto, anche i bovini, di cui la città è piena, cacano). Hai due opzioni a questo punto.
O scappi, conti i minuti che ti separano dal primo treno, bus, macchina scassata che ti porterà via da qui, per sempre, perché non ci tornerai mai e poi mai, e sul tuo divano al caldo del tuo plaid, guardando il tuo reality preferito, vorrai solo dimenticare quella sensazione di vissuto, di lercio, di sporco che ti ha lasciato, oppure ti fai travolgere, dimentichi per un attimo la tua concezione occidentale di vita, morte, igiene e ti lasci trascinare anche tu dal flusso del Gange, danzando sul fiume al ritmo delle preghiere ed alla luce delle candele e dei fuochi accesi, così come i fiori lanciati in acqua per l’ultimo addio.
La città subito, non appena arrivato, ti inghiotte nei suoi cunicoli, nelle stradine a budella dove è inutile cercare di orientarsi, l’unica è fidarsi di qualcuno del luogo e seguirlo, perché non riuscirai mai a districarti nelle viuzze occupate da mucche, uomini in preghiera (quando va bene) o intenti in qualsiasi attività (si, anche quelle fisiologiche…).
C’è solo una soluzione. Abbandonarsi. Abbandonarsi alla gente, ai colori, ai sapori, alle scene di vita e di morte che questo posto ti offre, senza chiederti niente in cambio, se non la tua anima. Riuscirai senz’altro a sbirciare il rito della puja, al tramonto, tra fuochi, offerte di fiori al fiume, tra canti, suoni e mantra sussurrati. Goditi lo spettacolo, osserva a lunga fila delle pire accese lungo il fiume, e non farti troppe domande, it’s Varanasi, baby.
(Mario Mastrodonato)
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Nico, Giorgia, Angela, Luigi & Michele @ ALBANIA
(estate 2014)
Caro Gianluchino,
un giorno d'estate all'improvviso con gli amici Luigi Tortorella e Michele Nicassio ci ritrovammo a prenotare un traghetto per Durazzo, facendo così il percorso inverso di tutti i nostri amici del paese delle aquile!
Attratte da questo posto sconosciuto si aggiunsero a noi le amiche albanesi (shqiptarët) Giorgia Capozza e Angela Lamuraglia.
Dopo 80 ore di traghetto (cit. rivisitata del celebre film il commissario Lo Gatto!) arriviamo nel paese più sconosciuto e povero d'Europa: nonostante ciò Tirana si rivela una città carina, piena di locali, piacevole, in fase di sviluppo, grazie anche ai tanti connazionali che investono sul posto.
Detto ciò, dopo avere noleggiato una macchina targata Tirana (anche se la volevamo con targa Valona!) ci dirigiamo al sud, vero obiettivo del nostro viaggio, precisamente a Sarande, base della nostra vacanza, da cui spostarci per il mare incontaminato e selvaggio dell' Albania.
Posti bellissimi come Porto Palermo, Ksamili, Dhermi Beach, ti fanno capire il vantaggio di visitare questi posti prima dell'arrivo del turismo di massa; a ciò poi se si aggiunge il mangiare pesce (in particolare aragoste e datteri), a basso prezzo, fanno dell'Albania, o Shqipëri in lingua locale, un posto consigliato per godere delle bellezze naturali, diverso dalle solite vacanze alla ricerca della vita notturna.
In particolare consigliatissimo visitare Syri i Kalter (l'Occhio Blu), una sorgente carsica di acqua fredda, in cui i si puo tuffare nella natura, nel vero senso della parola.
Un’altra citazione merita Gjirokastër, patrimonio dell'Unesco, che ha conservato le tipiche abitazioni dei villaggi albanesi dell'epoca: molto caratteristico!
Insomma come considerazione finale, dopo mille dubbi sulla sicurezza, più che altro dovuta alla poca conoscenza della meta, possiamo affermare che possiamo considerare l'Albania la 22^ regione d'Italia!
(Nicola Pacucci)
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"Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario"
(Tamara Lo Giacco @ Auschwitz e Birkenau, 2016)
Parlare di Auschwitz e Birkenau non è cosa facile, e ancora più difficile è comprendere veramente l’accaduto. Tutto in quei luoghi fa pensare a qualcosa di disumano, ma poi ti ricordi che in realtà è stato proprio l’uomo a concepire tutte quelle atrocità, e allora resti in silenzio, per tutto il tempo della visita, piena di rabbia, sgomento e disgusto di fronte alle montagne di capelli umani, di occhiali, di scarpe, di protesi,
di spazzole e pennelli da barba, di pentole, di giocattoli, di valigie con su scritti nomi e indirizzi, perché quelle valigie, i deportati, credevano dovessero tornare alle loro case! Ecco… ciò che più mi ha sconvolto è la scientificità di quell'orrore, la lucida e diabolica pianificazione dell’annientamento degli individui, prima nell’anima e poi nel corpo.
Nulla era lasciato al caso, per un inganno terribile e perfetto, che si manifesta già dall’entrata ad Auschwitz con la famosa insegna "Arbeit Macht Frei" (il lavoro rende liberi).
I Lager erano due: il campo di concentramento di Auschwitz, più piccolo, e il campo di sterminio di Birkenau, immenso, con i suoi oltre 300 edifici tra camere a gas, forni crematori, baracche dei prigionieri, latrine, case delle SS, torrette di guardia, binari ferroviari e chilometri di filo spinato. Oggi più che musei, sono luoghi della memoria istituiti per proteggere e far conoscere tutto il materiale che i nazisti non riuscirono a cancellare definitivamente durante la ritirata.
Molti degli edifici in mattoni rossi, i cosiddetti “blocks”, tutti rigorosamente numerati, sono ancora in piedi e adesso ospitano le esposizioni del museo dove si possono vedere centinaia di fotografie, i documenti originali che annotano i dati impressionanti dei prigionieri divisi per nazionalità, le raccolte degli oggetti confiscati, le centinaia di scatole di Zyklon B usato nelle camere a gas.
Ad Auschwitz è possibile entrare in una camera a gas ancora intatta, con i fori sul soffitto da dove inserivano le scatole di Zyklon B, e vedere dove le persone, ingannate dagli appendiabiti e dai finti soffioni, si spogliavano convinte di dover fare la doccia. Oggi, poggiato sul pavimento al centro della stanza, c’è sempre un vaso di fiori freschi. Subito dopo la camera a gas, si trovano direttamente i forni crematori. Poi c’è il "muro della morte", dove venivano fucilati coloro che tentavano la fuga, ricostruito esattamente come l’originale, così come i pali delle impiccagioni.
Arrivata a Birkenau, a qualche chilometro di distanza da Auschwitz e grande almeno dieci volte tanto, la sensazione di incredulità e oppressione che mi accompagnano sin dall’inizio, vengono amplificate ulteriormente dalla vastità del luogo, dove gli edifici in mattoni rossi e legno tutti uguali, che oggi contrastano dolorosamente coi prati verdi, si perdono a vista d'occhio.
Al centro si trova il binario “Judenrampe” su cui arrivavano direttamente i vagoni stipati di deportati, alcuni già morti durante il viaggio, passando sotto la torretta centrale, macabro simbolo del lager. Qui, i convogli provenienti da tutta Europa si fermavano, le SS facevano scendere i passeggeri, tutti i bagagli venivano scaricati e portati via, e aveva inizio la “selezione”: deboli, vecchi e malati da una parte, per essere subito condotti alle camere a gas, uomini sani da adibire al lavoro, da un’altra parte, donne e bambini, da un’altra parte ancora. Così, si separavano le famiglie, senza nemmeno salutarsi, senza sapere che non si sarebbero mai più riviste.
Ci incamminiamo nel campo e giungiamo ad una gradinata in sampietrini, molto ampia, con ventidue lastre di marmo, come le lingue che si sono parlate all’interno del campo, anche se l’unico idioma consentito per sopravvivere era il tedesco. Su ogni lastra c’è incisa la stessa frase di commemorazione, nelle varie lingue: “Grido di disperazione ed ammonimento all'umanità sia per sempre questo luogo dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e bambini, principalmente ebrei, da vari paesi d'Europa. Auschwitz - Birkenau 1940-1945”. La scultura di Pietro Cascella del 1967, che copre una lunghezza di 57 metri, rappresenta le sepolture nelle varie culture internazionali.
Lì accanto vi sono le macerie di una camera a gas fatta esplodere dai tedeschi nel tentativo di occultare questa enorme macchina della morte; conteneva oltre 2000 persone per volta. Sono trascorsi circa 50 minuti da quando eravamo vicino al binario d’arrivo, ed era questa la durata massima della vita della maggior parte delle persone che arrivavano qui.
Continuano le baracche, tutte disposte in ordine maniacale una di fianco all’altra; entriamo dove c’erano i locali adibiti ai lavandini, praticamente due canali di scolo paralleli, con anche gli spazi per le saponette, che ovviamente non c’erano, ma i lavandini si fanno così, e i tedeschi rispettavano le regole! Più in là le latrine, dei fori affiancati su delle lunghe lastre di cemento; il pensiero del tanfo e della sporcizia che poteva esserci lì dentro è agghiacciante, ma la guida ci informa che chi lavorava allo smaltimento dei liquami era fortunato, perché poteva stare al riparo e al caldo, quando fuori c’erano 20 gradi sotto zero! Ora arriviamo ai dormitori: decine e decine di pianali di legno disposti su tre livelli e separati da muretti che ospitavano otto persone ciascuno. Condizioni igieniche spaventose, dove i bisogni personali spesso finivano ai piani sottostanti. Oggi ci sono delle finestre a protezione, ma allora, non c’erano nemmeno i vetri. Percorriamo ancora un po’ di strada e siamo fuori. Sembra così facile uscire da qui oggi! Così finisce questa visita ai campi di Auschwitz-Birkenau, di cui avevo solo letto e studiato, e che ora ho toccato con mano. "Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario" scriveva Primo Levi, e ora capisco quanto sia importante andare in quei luoghi almeno una volta nella vita, per continuare a ricordare e sperare di non ripetere.
(Arch. Tamara Lo Giacco)
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Luigi & Michele @ THAILANDIA
(dicembre 2013 - gennaio 2014)
Caro Gianluchino,
questi i ricordi che mi porteró dietro da questa incredibile e imprevedibile vacanza!
“Bangkok: la città che ti mette in cattura.”
Ti mettono in cattura i Tuc Tuc che non ti portano mai dove hai concordato.
Ti mettono in cattura le distanze, che sulla mappa sembrano fattibili a piedi, poi t'accorgi che non hai superato un isolato e ti rimetti nelle mani dei Tuc Tuc. Ti mette in cattura lo smog, tale da non farti respirare provocandoti un raffreddore da smog. Ti mettono in cattura i milioni di venditori ambulanti con le loro bancarelle lungo tutte le strade. Poi compri l'alimentatore dell' iphone e scopri che e' falso come tutte le altre cose che vendono. Per fortuna poi ci sono gli stupendi Wat della città che, con il loro forte spiritualismo buddista, ti allontanano per un momento dalla frenesia della metropoli!
“Phuket: l'ignoranza, ma per fortuna ci sono le bellissime isolette vicine.”
Quando sento questa parola mi viene in mente come la pronunciava il Ciazza quando ci consigliava: "c sciat a fa a Bangkok... a Puuukkket avit sci".
Appena arrivati, per l'esattezza a Patong, abbiamo capito il perchè e non ci siamo fermati solo a comprenderlo, ma abbiamo voluto approfondire. Giochi a “forza 4” o al biliardo con le prostitute (se diventano discipline olimpiche la Thailandia vince l'oro). Bevi, balli e ti strusci con loro. Declini gli inviti di quelle più brutte o peggio ancora (ma non sempre peggio) dei LadyBoy.
Assisti agli spettacoli "di piccione" di cui l'amico Gianluchino ne andava orgoglioso nei suoi racconti. Ma alla fine di tutto questo, si arriva ogni volta allo stesso punto. Quanti bath? E la i primi musi storti. Dai “3 eulo” siamo arrivati ai 2000 bath. La serata continua ma non siete tenuti a sapere... Ma per fortuna poi ci sono le isole.
Ecco appunto le Phi Phi Island con le sue paradisiache spiagge: Maya Beach, Viking Beach, Monkey Beach... le cartoline piu' belle che abbia mai visto in vita mia, ma questa volta senza un francobbollo appiccicato dietro. Un viaggio nel viaggio, a stretto contatto con la natura ancora incontaminata, con le tanto desiderate scimmiette.
Paradiso! Emozionante poi la notte trascorsa nel mezzo della foresta, tra versi di animali strani ed il naso di Tortorella che si aguzzava dalla paura! E' scontato dirvi che il Ciazza qui non ci è venuto.
“Count Down Party: il Full Moon di Capodanno”
Infine Kho Samui, anzi no Kho Panghan, anzi no: Full Moon Party! Essi perchè dopo aerei, traghetti e taxi, tutto inserito in due giorni di meteo non da ricordare e zero mare, eccoci al capodanno piu' atteso di questi ultimi anni: il Count Down Party. Australiane disinibite, niente. Approcci facili, nud. Mettici 4 secchielli che ci hanno mandato KO, un cellulare perso, ed il capodanno più atteso degli ultimi anni è diventato il motivo di gasteme della vacanza. Ció che resta comunque è che si tratta davvero di un grande evento e che forse siamo anche noi troppo grandi per lui. Vi auguro un buon 2014 a tutti.
(Michele Nicassio)
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Francesco Fornarelli @ ARGENTINA
(agosto 2011)
Caro Gianluchino,
l'Argentina è meravigliosa. Al nord troverai le più vaste cascate del mondo, le Cataratas del Iguazu, un assordante massa di acqua composto da 275 salti profondi fino a 150 metri.
Al sud potrai goderti le meraviglie del Perito Moreno e spingerti fino alle terre più a sud del mondo nelle Islas Malvinas. Ma l'Argentina è soprattutto gli argentini, una popolazione meravigliosa che ha le proprie radici nell'Europa Continentale. E soprattutto gli argentini amano gli Italiani...tutti si affannano a sfoggiare un parente Italiano! Nella città di Salta abbiamo trovato un'amica che ci ha invitato la domenica per il mate. Il mate è una sorta di te, più amaro, da bere senza zucchero. Pare che il Che lo bevesse per curare l'asma. Ma ha poteri eccitanti, rilassanti, afrodisiaci, drenanti e insomma lo bevi perchè è una cura ad ogni male. Il mate è soprattutto un rito. Lo si passa di persona in persona sorseggiandolo seduti in salotto.
E la signora Rosa, palermitana di Palermo, mamma palermitana, di mate ce ne ha fatto bere tanto. Per lei era un onore immenso avere degli Italiani la domenica in salotto per il mate. Ci raccontava con le lacrime agli occhi in un Italiano stentato (era partita dall'Italia a 10 anni e la sua famiglia parlava in dialetto) dei suoi pochi ricordi d'infanzia, di come la sua mamma le raccontava quanto fosse meravigliosa la vita in Italia e delle difficoltà affrontate 50 anni fa arrivati poveri fra i poveri. E di come siano riusciti a vivere ed ambientarsi in questa terra per loro oggi meravigliosa. Un emozione sentire quelle storie che dura per me fino ad ora.
Ps. Il mate è eccitante come te, caffè e ancora te! La sera non si è dormito...
(Francesco Fornarelli)
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Nico, Tommy & Antonio @ MALTA
(giugno 2012)
Caro Gianluchino,
all’inizio dell’estate 2012 io e i fedeli compagni Tommy Moretti e Antonio Saponara, sbarchiamo su quest’isola del Mediterraneo, misto di cultura araba, italiana e anglosassone.
In piena fase finale degli europei di Calcio 2010, le serate sono scandite tra ubriacature di giubilo per la vittoria della propria nazionale o ubriacature di sconforto per la sconfitta (ahimè la nostra Italia batté la Germania 2-1 durante il nostro soggiorno… Vi lascio immaginare…). Immersi in un orda di american bar con musica ad alto volume e night club, concentrati in un'unica via pedonale, di cui di certo non ricordiamo nemmeno il nome!
Dove l’età media è molto bassa, il nostro passatempo preferito non poteva che essere bere cocktails annacquati a 1,25 € o in mega beveroni da litro da 6 €, e quindi molestare tutte le donzelle europee di dubbia età! Di certo non si può definire Malta un viaggio rilassante, il mare non è un gran ché, tranne per la famosa e spettacolare Laguna Blu, tra le isole di Gozo e Comino, e la spiaggia di Golden Bay. Immancabile qualche puntatina al Casinò di St. Julian, di certo non fortunato per noi. Il basso livello culturale del trio fu confermato dal non aver visitato la capitale La Valletta, a pochi chilometri da noi, per l’elevato tasso alcolico perenne! Insomma per visitare Malta bisogna essere innanzitutto disposti a bere, poi il resto viene da se!
(Nicola Pacucci)
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